Le stagioni dei diritti tra celebrazioni e dimenticanze

Sembra che in Italia ci sia una nuova stagione dei diritti, finalmente!

Finalmente, perché un paese che non riconosce le libertà individuali di ogni persona non può definirsi “civile” e nemmeno “progressista”.

Può, però, definirsi ugualmente “civile” e “progressista” un paese che riconosce i diritti civili che tutelano ogni singola persona, ma che, contemporaneamente, sfibra il tessuto sociale e mina la struttura dei diritti sociali, come il diritto al lavoro, alla salute, all’istruzione, alla casa, alla pensione?

È libertà o colonizzazione dell’immaginario?

Sembrerebbe una conquista vana, per far riferimento a un’espressione usata dal Presidente Pertini:

Ma la libertà senza giustizia sociale può essere anche una conquista vana. Mi dica, in coscienza, lei può considerare veramente libero un uomo che ha fame, che è nella miseria, che non ha lavoro, che è umiliato perché non sa come mantenere i suoi figli e educarli? Questo non è un uomo libero.

Si ha l’impressione che la nuova stagione dei diritti sia un compromesso e che assuma quasi i tratti di un baratto. A ogni avanzamento dei diritti civili c’è un arretramento dei diritti sociali aumentando, di fatto, le diseguaglianze e la possibilità di accesso ai servizi primari.

Il lavoro si struttura sempre più sulle forme del precariato, al contempo non sembra ci siano azioni di lungo respiro atte a favorire le piccole e medie imprese e il mondo delle partite Iva, un lavoro che non redistribuisce ricchezza ma che favorisce l’accumulo e la speculazione.

La sanità e la scuola sono altri pilastri di un sistema di welfare che sta scricchiolando. Sempre più numerose le persone che non possono permettersi cure mediche o a mandare i figli a scuola.

Senza la possibilità di un lavoro che offra una garanzia per il futuro e che non si limiti al quotidiano nessuna persona, di nessun orientamento sessuale, religioso, politico, potrà solo immaginare di formare una famiglia e poter sperare di migliorare la propria condizione sociale.

I diritti o sono un corpo unico o non sono. La politica ha il compito di guardare con lungimiranza all’insieme e mai al particolare. La tanto bistratta e vituperata “prima Repubblica” ci indicò come l’avanzamento dei diritti fosse un percorso inclusivo, che comprendeva la persona come individuo singolo e contemporaneamente come parte di un sistema sociale. Nel 1970, infatti, viene introdotto nell’ordinamento giuridico italiano il divorzio e quello stesso anno viene emanata anche la legge 20 maggio 1970, n. 300- conosciuta come “Statuto dei lavoratori”, che introdusse importanti garanzie a tutela dei lavoratori ma anche del lavoro.

Lavoro, lavoratori, tutele, uguaglianza, tutte parole che sembrano provenire da lontano, come echi, e che la politica contemporanea evita perché non funzionali allo storytelling di un modello nuovo di collettività.

La politica è il riflesso della società da cui si sviluppa. Una società che non dona più e che assume i tratti dell’indifferenza e dell’individualismo, concentrata sui singoli comportamenti e sulle necessità individuali, indirizzata sui desideri più che sui bisogni, che distruggono alla radice il sentimento del legame sociale che ha smarrito lo spirito del dono, del dare, ricevere, ricambiare.

Modelli e tratti culturali che la politica ha adottato che si fondano sulle capacità di narrazione di un leader, sulla personalizzazione della politica anziché sulla condivisione, ponendo in campo azioni che prevedano la delegittimazione dei corpi sociali.

La direzione intrapresa porta gli individui a essere uniti solo da interessi e “affinità di coscienze” una società, definita dal sociologo e antropologo francese Durkheim, di solidarietà meccanica dominata da forti tratti di omogeneità e similarità in contrapposizione alla società di solidarietà organica fondata sulla interdipendenza tra individui e gruppi sociali e con una forte propensione alla coesione.

Rappresentare i diritti come elemento di divisione anziché di coesione può produrre uno sgretolamento del sistema sociale e far venire fuori la parte peggiore di ogni singola persona.

Si è al punto in cui la società contemporanea vive il paradosso del “ricatto dei diritti”; di essere costretti a scegliere tra il diritto al lavoro e il diritto alla salute, due diritti fondanti della nostra Costituzione. Una contrapposizione che subentra all’interazione, minando di fatto le fondamenta della attuale società e logorando quel patto sociale che è la Costituzione che ha permesso a ognuno di noi di sentirsi parte di una comunità più vasta e trasversale.

Più che nuove stagioni, sarebbe auspicabile il ritorno alle vere stagioni dei diritti.

“Si è inclini a dimenticare che i diritti sono indivisibili e che le vere stagioni dei diritti sono quelle in cui diritti individuali e diritti sociali procedono insieme. È il modello, non dimentichiamolo, della nostra Costituzione”. (Stefano Rodotà)