Una storia da Intercity 707 è quella del film La notte più lunga dell’anno che è in questi giorni nelle sale.
Lo dico subito: ho motivi di affezione personale che mi legano a questo film.
L’ho visto nascere e poi crescere quando era solo parole, virgole e punti su un soggetto scritto da Andrea Di Consoli, lucano, con il regista Simone Aleandri, che invece è romano e ha scoperto la Basilicata girando il documentario Mater Matera.
A loro due si è poi aggiunta la sceneggiatrice triestina Cristina Borsatti. Ma il motivo per cui voglio parlarne non ha a che fare con questo, bensì con l’importanza che il film ha rispetto al nostro territorio, perché fotografa qualcosa che nessuno ha mai fermato in un’opera audiovisiva e che ci riguarda molto.
Anche se non dimentico l’incessante lavoro di autorappresentazione che hanno fatto – e continuano a fare – al cinema Vito Cea e Antonio Andrisani (recentemente con Sassiwood), è questo il primo film, con una distribuzione nazionale, che racconti veramente la Basilicata. Non solo Potenza, dove è ambientato e che si può dire sia al suo esordio sul grande schermo, ma la Basilicata, intera. E non solo come sfondo di storie che potrebbero essere ambientate altrove.
La notte più lunga dell’anno indaga che cosa voglia dire nascere e crescere in un posto dove si ha sempre la sensazione che le cose importanti accadano altrove e che quello che hai faticosamente racimolato nella tua vita in un altro posto sarebbe diventato un capitale.
Tante volte, parlando con amici che sono rimasti in Basilicata, o che ci sono tornati per varie ragioni dopo aver vissuto fuori, ho avuto questa sensazione di rimpianto di un altrove. In molti casi era solo una scusa, questi miei amici ci stavano benissimo in Basilicata ma avevano bisogno dell’idea di una fuga possibile per perdonare le rinunce che ciascuno di noi è costretto a fare (anche chi vive nei posti in cui le cose accadono). Per altri, però, era una specie di rassegnato tormento che prima o poi sarebbe esploso.
Nel film esplodono tutti, nella stessa notte, quella fra il 20 e il 21 dicembre quando le ore di buio sono più numerose che in qualsiasi altra data del calendario: una donna (Ambra Angiolini) che è troppa adulta e stanca per lavorare ancora con la propria immagine – altrove forse avrebbe avuto successo – un politico (Massimo Popolizio) che assiste al crollo della propria carriera politica, uno studente universitario fuori sede (Luigi Fedele) che vede finire la sua relazione con una donna della sua città, tre ventenni (Francesco Di Napoli, Michele Eburnea, Nicolò Galasso) che girano a vuoto cercando di dare un senso alla propria serata ma devono fare i conti con la morte. Ad accoglierli, con una parola di conforto o con sincerità mai ruvida, il benzinaio Sergio (interpretato da Mimmo Mignemi, che, con il suo volto stanco e bonario, riassume tutta la storia del Meridione pacifico).
Questi personaggi ci raccontano che la notte in provincia è breve per chi è in pace con sé stesso, ma può essere terribilmente lunga per chi cerca delle risposte. Perché, a differenza che nelle città che non dormono mai, nella provincia non c’è frastuono attorno, non ci si può perdere nella confusione e rimandare a un’altra volta le proprie domande. Nel film di Aleandri c’è solo il persistente rumore delle pale eoliche e dei navigatori che non trovano mai la strada e ripetono di fare inversione a U – metafora non dichiarata del senso di smarrimento dei personaggi.
Tanto più questo film è preciso nel fotografare una sfumatura esatta della malinconia lucana, tanto più diventa universale e porta la Basilicata, la notte lucana, a diventare paradigma di chiunque, ovunque, si senta incastrato fra aspirazioni e frustrazioni.
Il film non offre speranze illusorie, soluzioni consolatorie, guarigioni miracolose, ma, alla fine, solo un po’ di calore, seguendo con sincerità il passo incessante e implacabile della vita ordinaria.
Chi avrà l’onestà di ammettere di aver passato notti tanto lunghe, in Basilicata o altrove, lo apprezzerà.