Sto leggendo in questi giorni un libro che ho comprato dalla libreria Mondadori di Matera e sarà forse questa circostanza a farmelo associare alla Basilicata, anche se il libro parla di un altro posto, cioè dell’America.
Si chiama Viaggi con Charlie alla ricerca dell’America , lo ha scritto John Steinbeck e lo ha pubblicato in Italia Bompiani.
Il libro è un resoconto di un lungo viaggio in camper che lo scrittore fece nel 1960 attraversando tutta l’America.
È un’opera godibilissima, di quelle che ti fanno fantasticare stando fermo nella tua stanza.
Chi non prenderebbe un camper per partire verso nessun dove?
Tutte le volte che, nel libro, qualcuno si avvicina a osservare il camper di Steinbeck, gli dice che vorrebbe tanto lasciare tutto e partire con lui.
A un certo punto un ragazzino si nasconde addirittura nel camper sperando che lo scrittore se lo porti via con sé.
Ancora più godibile è il libro se uno ha minima fascinazione verso l’America, come ce l’ho io avendola vista centinaia di volte nei film.
Mentre, però, facevo questo viaggio assieme a Steinbeck per l’America, nelle sue descrizioni, nelle sue riflessioni io ci ho visto la Basilicata.
Non solo in certi paesaggi – tante volte lungo la Basentana deserta con le sue pompe di benzina, i suoi paesaggi brulli io ci ho visto il Texas dei film, anche se forse quel Texas non esiste , ma anche e soprattutto nell’identità che Steinbeck attribuisce all’America in questo viaggio di scoperta.
Un’America che, sotto la spinta della modernizzazione, sta perdendo le proprie tradizioni, i propri dialetti.
Pareva a me che la parlata regionale stesse scomparendo, non già finita, ma in via d’estinzione.
Dev’essere l’effetto di quarant’anni di radio, e venti anni di televisione.
(…) Il linguaggio della radio e della televisione si standardizza, diventa un inglese omogeneo, forse il migliore che mai si sia parlato nel nostro paese.
Come il nostro pane, impastato e cotto, impacchettato e venduto senza beneficio di accidente e fragilità umana, è uniformemente buono e uniformemente insipido.
(…) Certo il profondo sud si regge con più forza alle sue espressioni regionali, allo stesso modo in cui regge e tesorizza certi altri anacronismi, ma non c’è regione che possa resistere a lungo alla strada di grande comunicazione, alla condotta dell’alta tensione, e alla televisione nazionale.
Forse non vale neanche la pena di salvare ciò di cui piango la morte, ma io mi rammarico lo stesso.
Anche quando protesto contro la produzione a catena del nostro cibo, dei nostri canti, della nostra lingua, e alla fine anche dell’anima nostra, so anche che erano poche le case dal cui forno uscisse pane veramente buono.
La cucina di mia madre era, con rare eccezioni, povera.
(…) La sana vita all’antica era piena di dolori, di morte improvvisa per cause sconosciute, e quella dolce parlata regionale, di cui io sto facendo l’elogio funebre, era figlia dell’ignoranza e dell’analfabetismo.
(…) Ma è anche vero che noi, alla fame cronica, abbiamo sostituito l’opulenza cronica, e sarà quella a ucciderci, scrive Steinbeck.
E, mentre lo leggevo, mi pareva di sentire i discorsi che tante volte ho affrontato sulla Basilicata con Andrea Di Consoli e che in parte sono finiti nel libro intervista per accompagnare il documentario Mater Matera. Appunti, discorsi e impressioni sul Mezzogiorno.
Ancora, in un altro punto del libro, Steinbeck riflette sull’idea di radici.
Sono gli anni in cui in America si diffondono le case mobili, quelle che si possono trasportare come una roulotte dietro la macchina e piantare dove è più comodo.
Steinbeck conosce una delle famiglie che vivono in una casa così, ed è entusiasta di questa sua condizione.
Il padre è riuscito a piantare la casa a pochi passi dal lavoro e se dovesse perderlo potrà trasferirsi in un altro Stato. O addirittura passare l’inverno in montagna e l’estate al mare.
Steinbeck prova a obiettare: «Uno dei nostri sentimenti più apprezzati riguarda le radici, voglio dire, avere messo le radici su un terreno, in una comunità…Cosa pensavano di questo far crescere i figli senza radici?»
E il padre gli risponde: «Che radici ci sono in un appartamento al dodicesimo piano? Mio padre venne qui dall’Italia. Era cresciuto in Toscana, in una casa dove la sua famiglia viveva forse da mille anni. Queste secondo lei sarebbero le radici: niente gabinetto, niente acqua corrente, cucinavano col carbone di legna e coi tralci secchi di vite. Avevano due stanze sole, la cucina e la camera, dove dormivano tutti, nonno, babbo e tutti i figli, senza posto per leggere, senza posto per star soli. Era meglio così? Scommetto che se il mio vecchio avesse avuto da scegliere, le avrebbe tagliate le sue radici, per vivere così.»
Ricordo che, proprio mentre giravamo il documentario Mater Matera, intervistammo un uomo che aveva abitato nei Sassi e, guardandoli dal Belvedere Guerricchio, mentre reggeva in mano le chiavi della sua casa moderna e della sua macchina, disse con convinzione che non ci sarebbe
mai tornato – disse qualcosa come «vuoi mettere l’aria condizionata?»
Nel libro, Steinbeck arriva a una sofferta conclusione e mette in discussione la sua idea di radici: considerando la Storia umana nella sua ampiezza, è solo di recente che l’uomo ha abbandonato il nomadismo.Adesso sembra averlo dimenticato.
Il fatto è che tutti i grandi cambiamenti hanno bisogno di essere psicologicamente e sociologicamente elaborati.
Forse da un milione di anni gli uomini si erano avvezzi al fuoco, come cosa e come idea. Frattanto un uomo ebbe le dita scottate da un albero colpito da un fulmine, e poi un altro uomo portò quel fuoco dentro una grotta e scoprì che faceva caldo.
Saran passati centomila anni, e da allora le fornaci roventi di Detroit, quanto tempo?
E ora è disponibile una forza quanto più forte?
Noi non abbiamo ancora elaborato i mezzi per pensarlo, giacché l’uomo deve avere i sentimenti e poi le parole prima di accostarsi al pensiero e tutto ciò, almeno nel passato, ha richiesto molto tempo.
Con la Storia sempre ben visibile sotto gli occhi, anche nelle piccole cose, nelle misere architetture delle nostre campagne, forse non così diverse da quelle di mille o più anni fa, è come se ogni volta, più di chiunque altro, ogni volta che ci imbattiamo in un pensiero, noi dovessimo far negoziare l’uomo delle caverne, con le sue paure e la sua poesia, con l’uomo biomeccanico del futuro.
Questo è un dono, ma anche un danno.